Il cristiano tradizionale non ha mai amato un’astrazione,

non un operaio in quanto membro della classe operaia,

un duca in quanto aristocratico

un Patagone in quanto uomo.

Gli è impossibile:

può amare soltanto quell’operaio

quel duca, quel Patagone,

per il semplice fatto che li conosce, che partecipa alla loro vita;

perché delle qualità comuni, assolutamente indipendenti dalla loro qualità 

di operaio, di aristocratico, di uomo in generale, hanno tessuto fra di loro dei legami concreti.

Ama, nel vero significato del termine, un certo numero di esseri umani,

non molti a dire il vero, poiché le sue relazioni sono il più delle volte ristrette.

Se li conoscesse tutti, si sforzerebbe di amarli tutti, quanti sono sulla terra,

e se per caso incontra un ferito sul ciglio di una strada,

in quel momento lo conosce e lo ama;

ma l’amore dell’umanità gli è sconosciuto.

Come un uomo normale ama non già la bellezza, ma le cose belle,

egli ama non l’umanità, ma gli esseri umani in carne ed ossa;

li ama come prossimo, qualunque sia la loro qualità.

E prossimo vuol dire vicino, accanto a qualcuno che porta un nome proprio,

con il quale sono allacciate delle relazioni.

L’amore reale  esige un oggetto concreto,

ben diverso da una rappresentazione collettiva del pensiero:

ogni altra forma d’amore ne è semplicemente la contraffazione

Oggi, in molte anime cristiane, si è indurito un certo intellettualismo sospetto,

unito ad una torbida affettività, una specie di romanticismo dell’amore.

… Ci si ritiene esonerati dalle esigenze dell’amore perché si ama il popolo, la democrazia, la classe operaia;

ci si convince che questo è il vero cristianesimo, la carità autentica.

… l’amore di entità astratte, in cui l’uomo concreto si scioglie come neve al sole,

è infinitamente più facile che l’amore del prossimo in carne ed ossa.

Dice un umorista inglese che è molto facile per l’uomo amare la donna,

ma è assai più difficile amare la sua donna

… l’amore vero fa uscire l’essere al di fuori di sé, e lo trasfonde interamente nell’altro: è un dono,

mentre le astrazioni non escono dal pensiero che le produce, se non sotto forma di inchiostro o di saliva

Amarle, equivale ad amare il proprio pensiero, ad amare se stessi, a non uscire mai da se stessi. Ne è capace anche l’ultimo degli uomini. 

 

(Marcel de Corte (1905-1994), Fenomenologia dell’autodistruttore, Traduzione Roberto Antonetto, Borla, 1967, p. 23-25)

 

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